“Today, the American auto industry is back”. È emozionante quel video del 9 gennaio scorso in cui il presidente degli Stati Uniti spiega che “l’America può fare qualunque cosa”. Lo stesso Barack Obama solo tre giorni dopo, nel discorso sullo stato dell’Unione, ha ricordato ancora i risultati raggiunti dopo la grande crisi, con la ripresa della crescita e dell’occupazione. Parole che risentiremo il 20 gennaio, quando il presidente americano sarà al salone dell’auto di Detroit.
La verità è che l’industria statunitense è risorta grazie a massicci investimenti pubblici e privati rivolti al manifatturiero e alla tecnologia digitale. Stiamo parlando di cose che nella nostra penisola agitano dibattiti pubblici, programmi e proclami, ma che ancora non incidono efficacemente nel tessuto connettivo dell’Italia che produce.
Ormai tutti citano la “Industria 4.0”, cioè quell’insieme di novità tecnologiche ed organizzative che determinano valore aggiunto, riducendo i costi. Pochi, però, ricordano che l’obiettivo principale della riprogettazione industriale è il “reshoring”, ovvero il ritorno a casa delle produzioni.
L’industria americana, per esempio, può celebrare a testa alta il ritorno e il rilancio in patria di tante imprese nazionali, non solo manifatturiere. Ormai sono oltre 300 casi di ritorno a casa, quintuplicati in tre anni. Sarebbe un buon segnale che in Italia succedesse altrettanto. Da noi il settore manifatturiero vale 900 miliardi di euro di fatturato; garantisce esportazioni per 300 miliardi, permette il lavoro a 4 milioni di persone. In Italia rappresenta il 16% del Pil, quando in Germania è al 23%. Il problema è proprio che cresciamo poco. L’Italia ha recuperato il 3% di produzione industriale rispetto ai minimi registrati durante la recessione,ma tutti gli altri Paesi europei hanno fatto di più:la Gran Bretagna il 5,4%,la Spagna il 7,5%, la Francia l’8%, la Germania addirittura il 27,8%.
Insomma, per far tornare la grande impresa al centro dell’economia servono risorse fresche in innovazione che ancora latitano. Gli investimenti in “start up” del 2015, ricorda Roberto Saviano nella sua rubrica sull’Espresso, sono in linea con quelli del 2014:rispettivamente 20 milioni di euro per l’anno appena trascorso e 40 milioni per quello precedente. Anche dal punto di vista universitario non siamo messi bene.
Una ricerca della fondazione Res ha indicato che dal 2008 i docenti sono diminuiti del 17%, i corsi di studio del 18%, e i fondi del 22,5%. A causa di tanto disinvestimento le iscrizioni universitarie sono scese del 20% ed i laureati corrispondono al 23,9% degli iscritti, la percentuale più bassa in Europa. Numeri che dimostrano il bisogno di avvicinare il mondo delle nuove imprese a quello delle università e sostenere entrambi.
Occorre, comunque, rimanere fiduciosi. Il ministero dello Sviluppo economico ci tiene a far sapere, per esempio, che, se si considerano le variazioni della produzione industriale del secondo e terzo trimestre di quest’anno, l’Italia con il suo 1,1% fa meglio di Francia, Germania e Regno Unito. Speriamo che dagli Stati generali dell’Industria, convocati il 10 febbraio proprio dal dicastero guidato da Federica Guidi, esca qualche buona idea per il futuro prossimo. L’Italia merita più di un ritorno. L’industria è fondamentale perché ciò accada.
Ufficio Stampa Uilm
Roma, 14 gennaio 2016