Una cosa certa dell’incontro a Palazzo Chigi sull’ex Ilva del 29 aprile scorso c’è: la Uilm non condivide le linee guida del piano industriale. “Abbiamo detto e ripetuto che si ritiene doveroso avere nell’interesse dei lavoratori certezze e garanzie occupazionali”, dice il Segretario generale Uilm, Rocco Palombella. Fuori da questo quadro di riferimento, non c’è nulla che possa interessare le maestranze del gruppo, quasi 11mila dipendenti in Italia, di cui 8 mila a Taranto, per una produzione di 3 milioni di tonnellate d’acciaio nel 2023. “Del resto le linee guida che ci hanno presentato il 29 aprile scorso i commissari straordinari di Acciaierie d’Italia – aggiunge – non sono condivisibili né sul metodo, né sul merito, perché si fa solo la fotografia della situazione attuale, non dando le necessarie certezze per il futuro. E il presente, lo ricordo, è tratteggiato da 2.500 persone in cassa integrazione, il 90 per cento nel solo stabilimento di Taranto. Dai commissari ci aspettavamo più concretezza e un cambio di passo rispetto al passato”.
NESSUN MIGLIORAMENTO
Invece, spiega Palombella che “a due mesi dall’avvio dell’amministrazione straordinaria non vediamo nessun miglioramento tangibile rispetto alla precedente gestione fallimentare. Si continua a navigare a vista, senza alcuna certezza e tutto questo è inaccettabile”. Dal Governo e dai commissari “non abbiamo ricevuto nessuna garanzia sui lavoratori dell’appalto e sui crediti pregressi delle aziende dell’indotto che stanno avendo delle difficoltà a riceverli”. Per il sindacato, quindi, resta valido l’accordo del 2018: l’unico firmato dalle organizzazioni sindacali, che garantisce l’occupazione per tutti, compresi i 1.500 lavoratori in Ilva As.
“Peraltro – spiega il leader della Uilm – le linee guida del piano industriale, che verrà presentato all’Unione europea per chiedere il prestito ponte, 320 milioni di euro, da restituire la metà entro il 2028 e l’altra metà entro il 2029, non ci soddisfano e non garantiscono una solida prospettiva produttiva e occupazionale”. La ragione è oggettiva, tecnica: i tre altiforni sono prossimi alla chiusura per obsolescenza e non ci sono alternative adeguate, mentre i due forni elettrici prospettati, che entrerebbero in funzione non prima di tre anni, non potranno garantire una produzione sufficiente ad assicurare il futuro e la sostenibilità dell’ex Ilva.
Solo il rifacimento dell’Afo 5, con le migliori tecnologie ecosostenibili e con una produzione annua di 4 milioni di tonnellate, offrirebbe una solida prospettiva industriale, produttiva e occupazionale. Ma il Governo Meloni obietta che l’operazione non è fattibile per l’eccessivo costo e per le attuali regole europee. All’opposto si preferisce spendere centinaia di milioni di euro per il rifacimento di altiforni che avranno vita breve.
PRODUZIONE AL MINIMO
Tuttavia Palazzo Chigi dà l’impressione di dimenticare che l’unico altoforno (il 4) è in funzione con una produzione ridotta (circa 4mila tonnellate al giorno) e la previsione della produzione annua di poco è stimata appena sopra un milione di tonnellate. In altri termini, la situazione finanziaria è drammatica e rivela la fragilità su cui si poggia il rilancio delle acciaierie, uno degli assi strategici dell’industria nazionale. Infatti, i 320 milioni sono la conditio sine qua non per realizzare gli interventi previsti dai commissari necessari nei tre siti, Taranto, Genova e Novi Ligure. Ma si tratta di una prima quota-salvagente, cui si dovrebbero aggiungere a stretto giro di posta altri 600 milioni. Intanto, le banche sono al balcone, ad osservare i movimenti tra Roma e Bruxelles per lo sblocco del prestito ponte che, insieme ai 120-130 milioni di magazzino e di crediti in dote all’ex Ilva, rappresenta il piccolo nocciolo duro finanziario da cui provare a ripartire. Alternative finanziarie sono peraltro escluse, poiché i commissari hanno trovato in cassa appena qualche decina di milioni di euro. Insomma non c’è nulla di cui stare allegri.