Autonomia differenziata: un progetto per il Paese?

Si è tenuto il 21 febbraio presso il Leon’s Place Hotel a Roma il primo di una serie di appuntamenti che la Uil dedicherà al tema dell’Autonomia differenziata. Al centro del dibattito, introdotto e coordinato dal Segretario confederale Ivana Veronese, il cosiddetto ddl Calderoli.
Alla discussione hanno preso parte Gianfranco Viesti, professore ordinario di Economia applicata all’Università degli Studi di Bari (in collegamento), Eugenio Giani, componente dell’ufficio di presidenza della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Luca Bianchi, direttore di Svimez, Simona Bonafè, componente Commissione Affari Costituzionali alla Camera dei Deputati (PD) e Alessandra Maiorino, componente Commissione Affari Costituzionali al Senato (M5s). Le conclusioni sono state affidate al Segretario generale della Uil, PierPaolo Bombardieri.

IL SINDACATO DELLE PERSONE
Come spiega subito Ivana Veronese nella sua introduzione “come Uil pensiamo che ci si debba occupare anche dei diritti di cittadinanza e guardare oltre, ai tanti individui che molto spesso non hanno nemmeno questa forma di partecipazione. Ed ecco perché oggi ci occupiamo di autonomia differenziata, non con la supponenza di un sindacato che vuol mettere becco su tutto, ma con la consapevolezza di un’organizzazione che sa che le riforme costituzionali, il federalismo, il presidenzialismo, la distribuzione dei poteri fra stato centrale ed autonomie locali, non sono elementi indifferenti rispetto alla qualità dei servizi, all’efficienza della macchina pubblica, da cui deriva in buona misura, anche la qualità di vita, per l’appunto, delle persone”.
I riflettori si sono accesi sul processo delle riforme istituzionali e costituzionali a seguito dell’approvazione, in Consiglio dei Ministri lo scorso 2 febbraio, del disegno di Legge inerente alle disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a Statuto ordinario e della definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni prevista in Legge di Bilancio per il 2023. Sullo sfondo, la proposta di riforma costituzionale con l’introduzione del cosiddetto “presidenzialismo” o “premierato” che, stando alle parole della Presidente del Consiglio, dovrà andare di pari passo.

LE BICAMERALI
In passato, il Parlamento ha tentato tre volte di avviare processi di riforma attraverso organi composti da Deputati e Senatori, le cosiddette bicamerali per le riforme. Non sempre con successo. I primi tentativi di revisione costituzionale risalgono agli anni 80 e 90.
La prima bicamerale fu istituita nel 1983 e presieduta da Aldo Bozzi. La Commissione non formalizzò una vera e propria proposta di revisione costituzionale, ma formulò alcune proposte, tra cui un taglio del numero dei Parlamentari.
Il secondo tentativo, risale al 1992 con la bicamerale, presieduta prima da Ciriaco De Mita e poi da Nilde Iotti, ma la fine anticipata della legislatura bloccò il progetto.
L’ultima bicamerale fu costituita nel 1997 ed era presieduta da Massimo D’Alema.
La Commissione riuscì a portare un testo di riforma in aula, frutto del cosiddetto “patto della crostata”, evento importante, anche se avvenuto fuori dal contesto istituzionale. Infatti, il vertice si tenne a casa di Gianni Letta, in cui i partiti di allora (PDS, FI, AN e PPI) raggiunsero l’intesa per una Repubblica semipresidenziale, una legge elettorale a doppio turno di coalizione e la riforma del Titolo V.
L’aula della Camera dei Deputati discusse le proposte per sei mesi. Furono presentati più di 42 mila emendamenti, finché i lavori vennero sospesi per forti divergenze fra le diverse parti politiche coinvolte.
Dopo questi tre tentativi di lavorare su una riforma strutturale della Costituzione in maniera bipartisan e condivisa, il Parlamento ha abbandonato la via delle bicamerali e le riforme, da allora, sono state fatte tutte a colpi di maggioranza.

LE RIFORME
La prima, la più importante fu nel 2001, conosciuta sotto il nome di riforma del “Titolo V”. Tutt’oggi in vigore, avendo superato il referendum costituzionale che vide prevalere i sì con il 64%, a fronte, però, di un’affluenza alle urne solo del 34% degli aventi diritto.
Toccò, poi, al Governo di centrodestra approntare nel 2005, con il “patto di Lorenzago”, nella baita di montagna dell’allora Ministro Tremonti, una riforma Costituzionale ben più ampia, ad iniziare dalla forma di Governo fino a un decentramento esasperato con la cosiddetta “Devolution”.
Allora come oggi, il “padre” della riforma era Calderoli all’epoca Ministro alle riforme istituzionali.
Venendo alla devolution, il tentativo naufragò con il referendum confermativo dove, a fronte di un’affluenza che raggiunse il 52% degli aventi diritto, la legge fu respinta dagli elettori che, con il 61% risposero in maniera negativa al quesito.
È stata poi la volta della riforma costituzionale a firma Renzi e Boschi per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei Parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e delle Province e la revisione del Titolo V. Anche questa volta il tentativo è fallito sotto i colpi del referendum confermativo, che vide un’affluenza alle urne pari a circa il 65% degli elettori residenti in Italia e all’estero e una netta preponderanza dei pareri contrari alla riforma, che superarono il 59% delle preferenze espresse.
In porto, invece, con il referendum confermativo, nel 2020, la riduzione del numero dei Parlamentari con un’affluenza alle urne del 51% e un consenso pari al 70% dei voti espressi.

IL DDL CALDEROLI
Venendo a oggi, la Uil ritiene che questo Paese, per essere ammodernato e per competere sul piano dello sviluppo e ridurre le disuguaglianze, abbia bisogno di riforme molto ampie, condivise, partecipate, realizzate dalle forze politiche ma avvertite come opportune anche dalle forze sociali e dall’intera cittadinanza. L’attuale Governo ha scelto invece una strada diversa con un intervento riformatore, sostanzialmente vincolato su due obiettivi: da una parte l’autonomia differenziata, dall’altra la strada del presidenzialismo o semi presidenzialismo.
“A nostro avviso – dice Veronese – si tratta di ‘riforme bandiera’ che non arrivano al nocciolo della questione; parafrasando lo slogan scelto per oggi: si vuole veramente cambiare il nostro sistema Paese?”. A questa domanda risponde con forza PierPaolo Bombardieri: “Siamo di fronte a una norma incostituzionale e bisogna avere il coraggio di dirlo”. E aggiunge altri quesiti sul tavolo: “Quali sono le diseguaglianze in questo Paese e come colmiamo i divari? E, solo per fare un esempio, i livelli essenziali delle prestazioni spettano al Governo o al Parlamento? Il progetto sull’autonomia non risponde a queste e a tante altre domande. Noi non possiamo accettare divergenze a livello di scuola, di sanità, di infrastrutture, di politiche energetiche, di contratti di lavoro. Su tutti questi capitoli servono decisioni di carattere nazionale. La verità è che, complessivamente, anche sui temi del lavoro, manca un confronto vero con il Governo: siamo stati chiamati solo per essere informati. Evidentemente, è una scelta politica”.

COLMARE LE DISUGUAGLIANZE
Bombardieri, poi, ripropone alcuni dati che confermano le condizioni di disparità territoriale e sociale. “L’analisi dei Conti pubblici territoriali – sottolinea – ha messo in evidenza che, già oggi, la distribuzione dei fondi avvantaggia le Regioni settentrionali che, in media, ottengono un finanziamento pro capite di 12.908 euro a fronte dei 10.484 euro dei cittadini del Sud. Se si considera, poi, la spesa complessiva del Settore Pubblico allargato, nel 2020, le Regioni del Nord sono state destinatarie di circa il 49% dei finanziamenti, mentre poco meno del 28% è stato appannaggio del Sud: una distribuzione sostanzialmente invariata da oltre 20 anni a questa parte. Inoltre, la spesa corrente pro capite, sempre nel 2020, è stata pari a 16.785 euro al Nord, mentre al Sud si è fermata a 12.927 euro: una differenza di circa 4 mila euro, rimasta costante negli ultimi dieci anni, durante i quali, dunque, ogni singolo cittadino del Sud è stato destinatario, complessivamente, di 40 mila euro in meno di spesa pubblica rispetto a ogni singolo cittadino del Nord. E, infine – conclude Bombardieri – anche il differenziale retributivo è notevole: un lavoratore del Sud percepisce 8.900 euro annui in meno rispetto a un suo collega del Nord”.

COINVOLGERE LE PARTI SOCIALI
L’autonomia differenziata, così come disegnata dal dispositivo normativo approvato dal Governo, non solo non pone riparo alle evidenti disfunzioni delle attuali Regioni, ma al contrario rischia di accentuarne le inefficienze, fino ad arrivare vicino alla “disgregazione” del nostro già fragile Stato nazionale. La Uil nel tempo ha presentato proposte, idee e piattaforme per le quali ha richiesto un confronto con le altre parti sociali e soprattutto con tutte le forze politiche. Confronto che, purtroppo, negli ultimi anni è stato realizzato o qualche volta soltanto promesso, con scarsi risultati e ancor meno attenzione.
Se si vuole davvero colmare le disuguaglianze allora si proceda con un disegno strategico per il rinnovamento del sistema istituzionale del Paese, organico, coerente, ma soprattutto condiviso tra le forze politiche e con un ampio confronto che coinvolga le parti sociali.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *