Lavoro povero: una piaga del nostro Paese

Con il termine “lavoro povero” ci si riferisce a quei lavoratori che nonostante abbiano un lavoro non riescono a guadagnare abbastanza per condurre una vita dignitosa, o come si dice in questi casi “ad arrivare a fine mese”. Di questo si è discusso nel corso di una tavola rotonda di venerdì 4 ottobre dal titolo “Lavoro povero e ruolo della contrattazione collettiva” all’interno del programma del Convegno nazionale di AGI a Roma, dove si sono confrontati esponenti dell’avvocatura, dell’università, dell’impresa e dei sindacati. A moderare l’incontro è stata la giornalista del Corriere della Sera, Rita Querzè.
La Tavola ha ospitato gli interventi di Arturo Maresca, professore di Diritto del lavoro dell’Università La Sapienza, l’avvocata Sara Passante, Luca Ratti, professore di Diritto del lavoro europeo e comparato dell’Università del Lussemburgo e avvocato, Maria Grazia Gabrielli, segretaria confederale CGIL, Rocco Palombella, segretario generale UILM nazionale, Mattia Pirulli, segretario confederale CISL, e un rappresentante di Confindustria.

I NUMERI ALLARMANTI
Se non avere un lavoro resta la causa principale di povertà, avere un lavoro non è sufficiente per evitare di cadere in povertà. I numeri sono allarmanti: in Italia, secondo l’Istat, nel 2023 l’11,5% degli occupati era povero, una cifra elevata rispetto alla media europea dell’8,5%. Il dato tiene conto di chi lavora almeno 7 mesi all’anno, ma se considerassimo anche chi lavora meno sicuramente salirebbe in modo drammatico.
Non dimentichiamoci che un lavoratore povero oggi, sarà un pensionato povero domani.
Le ragioni che spiegano l’espansione del lavoro povero sono molteplici e interconnesse. Da alcuni dati Istat emerge in modo chiaro come tra le cause di reddito più bassi vi siano la tipologia contrattuale applicata e il regime temporale del contratto di lavoro.
Rispetto ai lavoratori con contratti a tempo indeterminato e full-time, gli occupati a termine e a tempo parziale percepiscono in media un reddito equivalente più basso e sono e vivono una maggiore instabilità lavorativa.

PRECARIETA’ E SALARI
In Italia si registrano: sempre più contratti precari e part-time involontari (nel 2023 il 16% di lavoratori in Italia era occupato a tempo parziale, la metà di loro NON per scelta); un minor numero di ore lavorate; l’impiego di manodopera poco qualificata specie nelle piccole imprese e le aziende dotate di forte potere di mercato decidono di scaricare il contenimento dei costi soprattutto sui salari dei lavoratori.
Un altro elemento importante è la stagnazione dei salari. Negli ultimi anni, l’Italia, già caratterizzata da una lunga stagnazione dei salari reali prima dell’aumento dell’inflazione, ha vissuto una fase prolungata di alta inflazione (+17,3%, in termini cumulati, nel periodo 2021-2023).
In questo periodo, la dinamica salariale non ha seguito quella dei prezzi. I salari sono stati infatti erosi da un’inflazione determinata principalmente dalla crescita dei profitti. Anche un ritorno a un tasso di inflazione del 2% non ha ripristinato il potere d’acquisto perso dai lavoratori in questi anni.
Secondo uno studio pubblicato dal Sindacato europeo nell’ultimo anno, tenuto conto dell’inflazione, i salari reali dei lavoratori europei sono diminuiti dello 0,7%. Nel corso del 2023, l’Italia è tra i Paesi europei con la maggior riduzione dei salari reali, -2,6%, mentre la Francia si attesta a – 0,6% e la Germania a -0.9%: in percentuale, una diminuzione di oltre quattro volte in più rispetto a quella subita dai lavoratori francesi e di quasi tre volte in più rispetto a quella dei lavoratori tedeschi.
Solo Repubblica Ceca e Ungheria registrano percentuali peggiori. Le lavoratrici e i lavoratori italiani, dunque, non riescono ancora a recuperare la perdita di potere di acquisto causata dall’ondata inflazionistica, mentre i profitti di imprese e multinazionali sono cresciuti. 

BASSA PRODUTTIVITA’
La “questione salariale”, nel nostro Paese, ha conseguenze anche sui consumi. Se non si aumentano i salari, e quindi la capacità di spesa, è impossibile che i consumi e il mercato interno possano contribuire a combattere la recessione che stiamo vivendo, e che le famiglie possano quindi tornare ai livelli di reddito precrisi e superarli. Questa stagnazione è accompagna da una bassa produttività, che è aumentata solo dello 0,4% in media all’anno. La produttività non cresce, anche perché il costo del lavoro è basso, questo spinge le imprese a non investire, a non fare ricerca e innovazione e a non riorganizzarsi.

LE CATEGORIE PIU’ COLPITE
Le categorie più colpite sono i giovani, le donne e i lavoratori migranti. Il lavoro povero ha conseguenze devastanti non solo per i lavoratori coinvolti, ma per l’intera economia.
A livello personale, vivere in una condizione di precarietà economica limita l’accesso a beni essenziali come la casa, l’istruzione e la salute. Inoltre, il costante stato di insicurezza lavorativa e finanziaria ha effetti negativi sulla salute mentale e sul benessere psicologico dei lavoratori e delle lavoratrici.
A livello economico, la diffusione del lavoro povero contribuisce all’aumento delle disuguaglianze e riduce la coesione sociale. Inoltre, la povertà lavorativa può generare una spirale di povertà intergenerazionale, dove i figli dei lavoratori poveri hanno meno opportunità di migliorare la propria condizione economica​.

LE POSSIBILI SOLUZIONI
L’introduzione di un salario minimo legale sarebbe giusta, ma non assolutamente sufficiente a risolvere il problema. L’obiettivo deve essere quello di creare più posti di lavoro qualificati in grado di fornire opportunità di reddito ai lavoratori.
Dare priorità a politiche economiche finalizzate alla buona occupazione, combinate con politiche attive dirette a migliorare il funzionamento del mercato del lavoro.
È necessaria a una revisione delle politiche fiscali e di welfare, con un rafforzamento della contrattazione collettiva.

PER LA UIL E PER LA UILM
Per la Uil e per la Uilm i Contratti Collettivi Nazionali sottoscritti dai Sindacati maggiormente rappresentativi sono lo strumento essenziale per aumentare i salari, nonché per migliorare le condizioni di lavoro e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, garantendo un’equa redistribuzione della ricchezza.
Aumentare i salari è l’elemento chiave della nostra azione sindacale, mirando a far ripartire il mercato interno, sul quale continua a insistere oltre l’80% delle imprese italiane.
Il nostro sistema contrattuale, pur essendo uno dei migliori nel panorama europeo, presente delle problematiche non più eludibili. Dal punto di vista prettamente salariale, per esempio, l’IPCA depurata che non consente di tenere conto in sede di rinnovo del CCNL della dinamica dei beni energetici importati, non ha permesso aumenti salariali in grado di coprire l’inflazione reale.
L’ISTAT ha previsto l’IPCA depurata al 4,7% per il 2022, ben al di sotto della crescita del livello generale dei prezzi (7,5%) osservata nei primi 9 mesi del 2022.
Inoltre, la contrattazione di secondo livello è ancora troppo poco diffusa. E questo è tra i problemi maggiori da risolvere. La contrattazione di secondo livello rappresenta uno dei fattori strategici per contribuire a realizzare una più equa politica redistributiva e migliorare le condizioni di lavoro.

FONTE PRIMARIA
Il CCNL deve essere la primaria fonte normativa, il fulcro della disciplina dei rapporti di lavoro, nonché il centro regolatore delle politiche salariali per tutti i dipendenti occupati in quel determinato settore.
Il secondo livello invece, deve offrire la possibilità del punto di equilibrio tra i legittimi bisogni di chi lavora e le necessità delle imprese realizzando una efficace organizzazione del lavoro, senza dimenticare l’importanza, anche sociale, di redistribuire la ricchezza prodotta in azienda attraverso la predisposizione di salari variabili legati a obiettivi.

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