Elettromestici: un’industria che rischia di finire fuori mercato

di Gianluca Ficco

Stretta fra un pesante calo della domanda e un perdurante incremento dei costi, l’industria degli elettrodomestici rischia di finire fuori mercato, disperdendo un patrimonio produttivo e professionale che da decenni rappresenta una realtà importante della nostra economia e delle nostre esportazioni. Ad attestarlo sono non solo i volumi produttivi giunti al minimo storico, ma i margini di redditività delle maggiori imprese europee oramai ridotti all’osso. Vendere alle grandi compagnie asiatiche sembra l’ultima spiaggia.

DA CANDY A BEKO
Lo fece a suo tempo Candy in favore della cinese Haier; lo ha fatto più di recente Whirlpool Europa, giudicando all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina il vecchio continente non più interessante e cedendo tutto ai turchi della Beko; ed pare proprio che voglia farlo pure la Electrolux, sebbene fino ad ora senza successo.
Operativamente con Beko è stato aperto un tavolo di confronto in sede istituzionale, che però il Ministero delle Imprese e del Made in Italy non si decide a riconvocare. In ogni caso già sappiamo che in autunno ci sarà presentato il piano industriale per l’Italia. Le premesse sono preoccupanti, sia per il perdurante basso livello di saturazione delle fabbriche pari a circa il 50%, sia per i segnali che arrivano da Regno Unito e Polonia di chiusura di stabilimenti.

ELECTROLUX
In Electrolux invece è in corso un confronto sulla riapertura dei contratti di solidarietà, ma a preoccupare è soprattutto il calo continuo dei volumi e il susseguirsi di risultati di bilancio negativi.
Adottando una ottica liberista, si potrebbe pensare che si tratti di una deriva inevitabile determinata dal depauperamento tecnologico del settore. Ma a ben vedere le evoluzioni della elettronica e della domotica potrebbero implicare l’esatto contrario, come del resto attestano le formidabili storie delle concorrenti coreane. La questione pare un’altra e riguarda la collocazione della Europa e dell’Italia nelle nuove catene di produzione globali.

DE-INDUSTRIALIZZAZIONE
Piuttosto pare che si stia facendo nuovamente strada l’ideologia della de-industrializzazione, che ha già imperversato nel recente passato sotto la famigerata forma della austerità e delle delocalizzazioni. Questa più recente versione appare invece sorretta dalle versioni più estreme dell’eco-radicalismo e dalla speranza che il mini boom occupazionale post covid possa protrarsi anche in futuro. Ma la sostanza è sempre la medesima, vale a dire la convinzione che a meritare di sopravvivere sia solo una industria avanzatissima o strettamente legata ai settori ritenuti strategici per la sicurezza; tutto il resto, industria di massa in primis, meriterebbe invece di migrare oltre i nostri confini.
Il trattamento che l’industria nel suo complesso e quella degli elettrodomestici in particolare stanno ricevendo attesta purtroppo che questa ideologia di de-industrializzazione sta scavando sotto le fondamenta della nostra economia e della nostra società. Altrimenti non si spiegherebbe come mai si continuino a negare aiuti, anzi ad addossare oneri di ogni sorta proprio a chi già versa in stato di difficoltà; tutto ciò proprio mentre le grandi potenze stanno facendo l’opposto di noi europei, ingaggiando una vera e propria gara per attirare le produzioni manifatturiere sul proprio territorio. La vera domanda è quante chiusure di azienda, quante recessioni e quanti disoccupati dovrà mietere questa sorta di ecoliberismo, prima che lo establishment dichiari con impunita leggerezza di aver sbagliato. A noi il compito di provare a farlo durare il meno possibile: ogni giorno guadagnato probabilmente corrisponderà a molte migliaia di disoccupati in meno.

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