di Ilaria Landi
Si dibatte spesso sul ‘peso’ delle donne nella società moderna e in quella di prospettiva che si evolve; chiaramente l’articolo vuole tenersi ben lontano dalle sterili stigmatizzazioni estetiche, per concentrarsi sulla sostanza. Talvolta l’accezione del termine non è sempre rivolta al positivo come vorremmo noi che ci battiamo le Pari Opportunità, immaginando il ‘peso’ come un aumento di volume delle tante voci ascoltate e dei Diritti. Invece no, per qualche (im)prenditore, il concetto resta che alcune donne ‘pesano’ nel senso che gravano sui costi dell’azienda e quando restano incinte pesano il doppio, per cui sono di troppo.
IL CASO FRANCHI
Qualche settimana fa ha fatto notizia il caso dell’imprenditrice di un noto marchio della moda, Elisabetta Franchi, che in un’intervista avrebbe dichiarato di assumere le Donne solo dopo che hanno già fatto i 4 giri di boa “matrimonio, figli, divorzio, over 40. Almeno possono lavorare h.24”. Un’affermazione che pare quasi tirata fuori da un’enciclica del medioevo, invece risale al contemporaneo 2022 e che sappiamo tristemente incontrare la condivisione, piu’ o meno tacita, di tanti imprenditori/imprenditrici anche se non saltano in cronaca. Apprendiamo favorevolmente il pronunciamento del tribunale di Busto Arstizio che si è espresso nei confronti della Società che fa capo all’imprenditrice (con trascorsi anche per comportamento anti-sindacale) con una condanna per discriminazione , a risarcire con 5mila euro l’Associazione nazionale lotta alle discriminazioni, alla pubblicazione a proprie spese del dispositivo di sentenza su alcuni quotidiani e a “promuovere” un “consapevole abbandono dei pregiudizi di età, genere, carichi e impegni familiari nelle fasi di selezione del personale per le posizioni di vertice”.
C’è da sottolineare l’importanza di questo pronunciamento e il fatto, assolutamente non trascurabile , che oggi siamo arrivati ad avere su questo tema attenzione e dibattito, fosse altro perché si può aprire un fronte, speriamo di esortazione alla denuncia.
IL CASO VIBAC
Dopo pochi giorni dal caso Franchi infatti, un altro episodio ha fatto emergere quanto di marcio e ottuso trasudi da certi corridoi aziendali: il responsabile del personale della Vibac, multinazionale che produce nastri da imballaggi e fattura oltre 250 mln di euro, durante il colloquio con cui non rinnovava il contratto in scadenza a una lavoratrice precaria rimasta incinta, si era così espresso: ”Il lavoratore interinale è come la macchina aziendale. Se si ferma, si chiama per sostituire la macchina. È brutto, ma funziona così, con questa spada di Damocle si riesce a inquadrare un pochino le persone”. Anche qui si attende il pronunciamento a seguito del ricorso dell’Associazione nazionale contro le discriminazioni ed è giusto sottolineare che la lavoratrice in questione non aveva mai avuto feedback negativi; il paragone con l’auto aziendale restituisce perfettamente il degrado umano e culturale a cui è stata sottoposta.
IL NOSTRO RUOLO
Chi come me svolge il mestiere di sindacalista all’interno delle varie sedi, nelle fabbriche, nelle Associazioni delle Pari Opportunità, in affiancamento all’ufficio vertenze, sa che questo atteggiamento è tragicamente diffuso anche nelle realtà minori, dove le discriminazioni sono forse più velate ma altrettanto brutali. Ci troviamo a discutere di part-time forzati, cambio di orari inconciliabili con la gestione familiare, ricorso maggioritario agli ammortizzatori sociali se ci sono esigenze familiari, interruzione di percorsi formativi al rientro del periodo di gravidanza. Chiaramente non si può generalizzare a discapito della correttezza etica e contrattuale di molte aziende, ma l’incidenza di questo si riscontra maggiormente nelle realtà più piccole, dove non c’è rappresentanza sindacale, né conoscenza dei Diritti. In questo contesto naturalmente deve prendere forza e vigore la nostra azione anche come Coordinamento, esportando il nostro modello sociale e culturale che pone particolare attenzione su questo, come abbiamo dimostrato anche le conquiste normative introdotte nel CCNL Nazionale per le donne vittime di violenza e le nostre rivendicazioni in questa fase di rinnovo.
L’importanza del nostro supporto di fronte alla complessità di certi casi passa anche dalla diversificazione dei servizi di assistenza che riusciamo a fornire; ad esempio il Coordinamento Pari Opportunità Uil Toscana, da tempo, sta lavorando con la Uil Nazionale per vedere riconosciuta all’interno della sede la figura dello ”Psicologo”. È un progetto importante, già presente in alcune realtà che va a coniugarsi con quello dei Centri anti-violenza e lo sportello Uil Mobbing – Stalking, che sta prendendo forma e potrebbe vedere nel futuro prossimo, l’istituzione di uno Sportello con Psicologo anche in Toscana che possa diventare un punto di riferimento, avvalendosi appunto di Professionisti del settore.
NON E’ UN PAESE PER DONNE
Tutto ciò restando consapevoli che l’Italia, spesso in troppe realtà, dimostra di non essere un paese per donne, per madri o comunque per genitori. Lo confermano i GAP occupazionali, retributivi e pensionistici dettagliati anche in uno studio della UIL del maggio scorso sul mercato del lavoro in Italia, dove si evidenzia, numeri alla mano, che il lavoro di cura ed assistenza familiare ricade ancora principalmente sulle donne; dove permangono due grosse diseguaglianze: il divario occupazionale e quello retributivo che nel settore privato può arrivare fino al 30%; dove l’incidenza del part-time per le donne risulta nel rapporto 1:1 mentre per gli uomini 1:4 . E c’è un altro dato che mostra tutta la gravità di questo sistema, ovvero quello di coloro che il lavoro non lo cercano neanche più: gli inattivi che dichiarano di esserlo per esigenze familiari oggi sono 3 milioni 478mila, di cui il 95,6% sono donne.
Ci continuiamo a muovere in un contesto decisamente complicato, dove l’individualismo e la rigidità di convinzioni creano fratture insanabili, dove spesso il dibattito pubblico snaturato dalla distorsione dei social vorrebbe minare l’autodeterminazione della donna stessa fino a condividere che una Donna che ha fatto figli ha già dato il proprio contributo alla società. Per alcuni può sembrare un concetto innocuo ma cin realtà serve solo a rafforzare uno dei dogmi più antichi del mondo ”donna uguale madre”, che di per sé resta bellissimo e inviolabile quando si tratta di una scelta deliberata, quando anche la rinuncia alla carriera lavorativa è una scelta senziente e non una ritorsione indotta dal sistema.
Non si possono richiamare principi sociali mortificando coloro che magari un figlio non hanno potuto averlo o semplicemente hanno scelto di non farlo. Qui non si tratta di valorizzare una decontribuzione sulle assunzioni o l’istituzione di alcuni bonus nascita, si tratta di rispettare la libertà di scelta della donna e la sua intimità, perché spesso chi ricorre all’IVG va incontro ad una decisione complessa, talvolta lacerante, che non può e non deve trovare una sintesi offensiva e minimalista tra chi è pro-vita e chi viene definito in modo ottuso e strumentale ‘’contro’’.
UN DIRITTO INVIOLABILE
La Legge 194 deve restare un diritto inviolabile , anche se – come riportato in un articolo on line molto interessante di La scienza in rete è chiaramente sotto attacco: “Questa Legge dovrebbe garantire libero accesso all’aborto chirurgico o farmacologico, ma sembra che in Italia nei fatti «non esista un vero e proprio diritto all’aborto», come conseguenza dei tanti e significativi vincoli e limitazioni, come per esempio l’alto numero di obiettori di coscienza tra ginecologi (media nazionale del 63%, con picchi del 80% in alcune regioni), medici di base e farmacisti. Ciò nonostante, i membri dell’attuale governo, o comunque alcuni parlamentari di area governativa hanno proposto misure ancora più restrittive, che vanno dal concedere pieni diritti giuridici dal momento del concepimento, all’obbligo dell’ascolto del battito fetale, fino all’inserimento delle associazioni pro-vita nei consultori. Proposta, questa, che è diventata legge grazie a un emendamento al decreto del PNRR approvato il 18 aprile alla Camera e il 23 aprile anche dal Senato.(..)”
LE RICHIESTE DELLA UIL
Vista la complessità e le penalizzazioni che permangono nel mercato del lavoro per le donne, anche nell’ultimo incontro al Ministero come sindacato abbiamo presentato e rinnovato le nostre richieste attraverso la Segretaria Uil Ivana Veronese: aumentare il periodo di congedo obbligatorio rendendolo “cogente” per il “secondo genitore”, mantenendo al 100% l’indennità; aumentare ad almeno 12 mesi stabili il periodo di congedo facoltativo, con l’indennizzo al 90%; riconoscere la malattia per il ciclo mestruale doloroso; riportare l’Iva al 5% per la cosiddetta tampon tax e per i prodotti per la prima infanzia; estendere a tutte le donne, con figli, l’attuale bonus mamme; adottare misure per aumentare il tasso di occupazione delle donne e favorire l’ingresso nel mondo del lavoro con forme contrattuali stabili; rendere strutturali gli incentivi per le assunzioni delle donne; rivedere il criterio delle deroghe relative alle assunzioni del 30% di donne e giovani per gli appalti pubblici del Pnrr; investire adeguate risorse per potenziare i servizi pubblici per la conciliazione dei tempi di lavoro, anche implementando i servizi integrativi, a cominciare dai centri estivi pubblici; prevedere forme di flessibilità per l’accesso all’età pensionabile delle donne; aumentare la misura massima di 400 euro mensili del reddito di libertà; finanziare adeguatamente la legge sulla non autosufficienza.
Dopo questo confronto ci saremmo aspettati una risposta dal Governo sulle risorse messe in campo per la parità di genere e sulle pari opportunità, ma questo non è avvenuto.
A dimostrazione che dietro la propaganda di alcuni personaggi non corrisponde la volontà di tradurre in azioni concrete il principio di uguaglianza e un vero sostegno alla maternità: battaglie che, proprio per questo, dobbiamo continuare a sostenere noi, come Parti Sociali, con tutta la forza e la determinazione delle nostre convinzioni.