Rispetto ai nuovi dati pubblicati dall’Istat emerge con chiarezza un elemento allarmante: un contratto su due dei nuovi assunti è precario poiché gli occupati a termine raggiungono un record storico dal 1997 arrivando a 3 milioni e 159mila, il 13,7% del totale.
Gli occupati in più in un anno sono 800mila e le donne sono in testa, che sarebbe una buona notizia se non fosse che nel corso della pandemia proprio le donne siano state le prima a perdere o a rinunciare al proprio lavoro.
I DATI IN UN ANNO
I dati di per sé sembrerebbero positivi visto che di fatto si sarebbe quasi chiuso il baratro occupazionale creato dal Covid-19 con il tasso occupazionale al 59,9%, tuttavia questo avviene come dicevamo solo ed esclusivamente grazie al lavoro precario. In due anni – tra marzo 2020 e marzo 2022 – Istat calcola 535mila occupati in più ma il 97% è a termine, solo il restante 3% è a tempo indeterminato. Tra l’altro non sappiamo quanto di questa esigua fetta sia part-time, per esempio, ma le ultime tendenze statistiche ci dicono che è certamente prevalente.
SPECCHIETTO PER ALLODOLE
Inoltre, dobbiamo tenere a mente che nei tre anni precedenti la forza lavoro italiana si è ristretta di 600mila unità, 348mila uomini e 253mila donne; un milione in meno sotto i 49 anni e 400mila in più sopra i 50. Insomma, lavorano più o meno le stesse persone rispetto al pre-pandemia, con la differenza, lo ribadiamo, che sono assunti con contratti a tempo. “Il precariato non è mai una buona notizia – commenta Rocco Palombella, Segretario generale Uilm – dire che il tasso di occupazione è aumentato, in questo caso è solo uno specchietto per le allodole. Oggi un giovane non può programmare un futuro, non può chiedere un mutuo per comprarsi una casa, ammesso che poi abbia stipendi adeguati per farlo, e una donna è costretta il più delle volte a optare per il part-time. Non possiamo che considerare tutto questo una sconfitta”.
MANIFATTURA
A preoccupare sono anche i dati della manifattura che ad aprile ha visto un calo in tutta l’Eurozona. L’indice S&P Global Pmi del settore manifatturiero ha registrato 55,5 punti contro i 56,5 di marzo e per l’Italia è sceso a 54,5 (dai 58,8 di marzo): un calo più basso delle previsioni (era atteso il 55) e il più basso da dicembre 2020. Il problema, secondo S&P, sarebbe la carenza di materie prime che avrebbe frenato la crescita della produzione in Italia.
“In futuro – conclude Palombella – dovremmo porci il problema di come rendere il nostro Paese autosufficiente, essere un Paese trasformatore ci pone in una condizione sfavorevole e di dipendenza che rende la nostra economia estremamente vulnerabile. In questo senso la transizione ecologica può essere una opportunità, ma va colta e programmata”.