di Andrea Farinazzo
Partendo dalla constatazione che i fattori di rischio legati ai discomfort e agli stress termici sono generalmente più elevati nel periodo estivo e che per questo motivo in questa fase dell’anno aumenta l’interesse di RSPP, igienisti e datori di lavoro sul rischio microclimatico, torniamo a parlarne con riferimento agli interventi che si sono tenuti al convegno “dBA2019 – Agenti fisici e salute nei luoghi di lavoro” (Bologna, 17 ottobre 2019).
Se rispetto al microclima il legislatore impone di valutare gli effetti sul comfort o quelli sulla salute dei lavoratori, la valutazione del rischio microclima in ogni ambiente di lavoro deve “essere preceduta da una corretta individuazione degli obiettivi di prevenzione che devono essere raggiunti”.
Ed è evidente che le condizioni che garantiscono di preservare il comfort, così come abbiamo ricordato in alcune recenti interviste, “sono diverse rispetto a quelle indirizzate a limitare gli eventuali rischi per la salute, così come le misure di riduzione risultano più o meno praticabili, più o meno onerose, a seconda dell’obiettivo di prevenzione”.
Se “questa doppia corsia per la valutazione dei rischi occupazionali è ben delineata per alcuni agenti”, “per quanto riguarda il microclima stenta a trovare una definizione condivisa dai diversi attori che hanno un ruolo nella gestione della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro: lavoratori, datori di lavoro e organi di controllo”.
LA VALUTAZIONE DEGLI EFFETTI SUL COMFORT O SULLA SALUTE DEI LAVORATORI
Si ricorda, come indicato nell’introduzione, che gli effetti rispetto ai quali porre una tutela “comprendono:
- gli effetti avversi alla salute, ovvero patogeni e cioè responsabili del deperimento delle condizioni fisiche dei lavoratori,
- quegli effetti sulla salute che, per quanto non avversi, incidono su specifiche condizioni di comfort, considerate indispensabili per l’esecuzione di determinati compiti lavorativi.
E un esempio di questa distinzione riguarda l’esposizione dei lavoratori al rumore.
Il legislatore “distingue il caso in cui può indurre effetti avversi per la salute (ipoacusie), dal caso in cui può comportare effetti sul comfort”:
- il primo caso “è trattato al Capo II del Titolo VIII (Agenti Fisici, ‘Protezione dei lavoratori contro i rischi di esposizione al rumore durante il lavorò)”: il legislatore “prescrive il rispetto di precisi limiti”,
- il secondo caso riguarda il Titolo VII (“Attrezzature Munite di Videoterminale”): per mezzo dell’Allegato XXXIV si prescrive “che il rumore emesso dalle attrezzature presenti nel posto di lavoro non perturbi l’attenzione e la comunicazione verbale”.
È evidente che riguardo alla valutazione dell’esposizione ad un agente o sostanza, “distinguere tra effetti avversi sulla salute ed effetti sul comfort impone di ricorrere a criteri diversi e studiati ad-hoc per la conduzione di quella che è genericamente chiamata valutazione dei rischi”.
IMPORTANZA DEGLI OBIETTIVI PROTEZIONISTICI
Abbiamo già detto che la definizione degli obiettivi di prevenzione e protezione “si profila come un atto prioritario nel processo della valutazione complessiva sulla salute dei lavoratori”.
È attraverso la definizione di questi obiettivi che sono infatti “stabiliti i criteri con cui svolgere l’accertamento sulle condizioni di salute, nonché i valori di riferimento (valori obiettivo o limiti veri e propri) con cui confrontare le grandezze eventualmente oggetto di accertamento”.
In particolare – la determinazione dell’obiettivo da raggiungere non può “seguire principi opportunistici, ma dev’essere aprioristica e valutata preliminarmente sulla base dell’analisi del contesto lavorativo. Se la valutazione complessiva dei possibili effetti sul comfort/sulla salute dei lavoratori ha esito negativo, diventa necessario definire opportune azioni di riduzione e/o risanamento delle esposizioni ed aver individuato il più corretto criterio di valutazione (comfort o stress) costituisce un fattore determinante nell’accettazione di queste misure da parte dei lavoratori e del datore di lavoro”.
Inoltre, definito lo scenario in cui la valutazione si svolgerà, “nessuna rimodulazione degli obiettivi di questa dovrebbe essere concessa o pretesa”: “se la valutazione concerne il comfort, non si potrà accogliere l’idea che, se sono emersi dei fattori di discomfort, questi si debbano tollerare in virtù dell’eventuale assenza di fattori di rischio”.
Dunque la presenza di fattori di discomfort “non potrà che comportare un programma di riduzione di questi e non ci potrà essere spazio per una sostituzione di detta valutazione con una sui fattori di rischio per la salute, riferita quindi ai possibili effetti avversi, dal momento che quest’ultima non risulta applicabile al caso in esame”.
Viceversa se la valutazione concerne gli effetti avversi per la salute “l’eventuale assenza di fattori di rischio, attestante la corretta tutela da detti effetti, non costituirà un via libera ad una valutazione sui fattori di comfort, dal momento che ora è quest’ultima a risultare inapplicabile” (“avviare forzosamente una valutazione sui possibili discomfort in un tale contesto avrebbe la probabile conseguenza di invertire l’esito della valutazione” conducendo “ad un’errata valutazione del rischio per sovrastima” ed alla delineazione di “pesanti e costose iniziative di risanamento”).
In particolare per quel che concerne il microclima “non è raro che la valutazione del rischio sia compiuta perseguendo obiettivi di comfort, oltre che negli uffici, anche in ambienti produttivi, candidando la valutazione ad un esito negativo per il quale sarà difficile, quando non impossibile, trovare delle soluzioni di risanamento”.
Un approccio di questo tipo rischia di “comportare la paralisi del Servizio di Prevenzione e Protezione che si trova di fronte a una non conformità per la quale sembrerà che non sia possibile attuare alcuna efficace misura di riduzione”.
E ad avviso degli autori questa modalità di valutazione “ha un vizio di procedura che consiste nella errata individuazione degli obiettivi protezionistici. Questi devono essere innanzitutto individuati nella tutela da eventuali condizioni di stress termico (fatta salva ogni più restrittiva valutazione a tutela dei soggetti particolarmente sensibili al rischio)”.
LO STRESS TERMICO E I METODI UTILIZZABILI PER LA VALUTAZIONE
Si ricorda che l’obiettivo del lavoro è “riesaminare i criteri con i quali determinare se la valutazione del microclima in specifici ambienti debba essere condotta mediante un accertamento sul comfort o sullo stress termico”. E la conclusione è che, “oltre che nei confronti degli ambienti vincolati, anche verso quelli produttivi e assimilabili, l’obiettivo protezionistico di una valutazione del microclima sia quello di garantire innanzitutto la tutela da eventuali condizioni termicamente stressanti per l’organismo per qualsiasi soggetto”.
Ricordiamo che l’Inail (che fornisce una prassi per la valutazione del microclima) definisce vincolati ‘gli ambienti nei quali esistono vincoli, in primo luogo sulla temperatura e sulle altre quantità ambientali, ma anche sull’attività metabolica e sul vestiario, in grado di pregiudicare il raggiungimento di condizioni di comfort’; mentre definisce moderabili ‘gli ambienti nei quali non esistono vincoli in grado di pregiudicare il raggiungimento di condizioni di comfort’.
E s’intendono con ambienti assimilabili a quelli produttivi “quelli dedicati allo stoccaggio dei beni, materie prime e prodotti finiti (magazzini e logistica), piuttosto che altri reparti a servizio di quelli produttivi (le officine per esempio)”.
Il contributo vuole risolvere “l’impasse cui conduce una valutazione condotta con l’improbabile obiettivo di accertare (e quindi poi garantire) il comfort termico in questi ambienti”. E con questi scopi “l’accertamento tecnico (avviato in assenza di una condizione di giustificabilità del rischio ex D.Lgs 81/08, art. 181, c. 3) sarà indirizzato alla valutazione dello stress termico e i metodi utilizzati comprenderanno” il PHS per gli ambienti caldi e l’IREQ per gli ambienti freddi. A questi si aggiunge il PMV che, pur concernendo il comfort, risulta pertinente anche nel contesto di una valutazione sullo stress termico allo scopo di valutare il rischio per soggetti con particolari sensibilità e per soggetti con disabilità termiche, ma anche per meglio definire i casi in cui sia necessario mettere in atto specifiche misure di tutela mediante interventi organizzativi/procedurali e tecnici”.
Si indica, inoltre, che per utilizzare correttamente l’indice PMV anche in una valutazione di stress termico, “occorre tuttavia stabilire quale tenore di discomfort può essere considerato accettabile, ovvero quale sia l’intervallo dei valori ammissibili per l’indice PMV in relazione all’attività svolta ed alle caratteristiche individuali e questa informazione si ricava dalla norma UNI EN 15265, dove si individua in -2 ÷ +2 l’ampiezza di questo range, ovvero facendo riferimento alle condizioni maggiormente restrittive fissate dalla ISO 28803:2012, qualora in presenza di situazioni di particolari sensibilità al rischio”.
In particolare la verifica di comfort termico, secondo gli autori, “è da considerarsi pertinente e applicabile negli ambienti detti indoor secondo un’interpretazione estensiva della definizione che ne dà la norma tecnica UNI EN ISO 16000-1:2006, ovvero ‘ambienti non soggetti alle prescrizioni indirizzate alla tutela dei lavoratori contro gli effetti derivanti dall’esposizione a sostanze e agenti nocivi’. Questi comprendono, in via non esaustiva, uffici, guardiole, reception e più in generale desk di interazione con il pubblico generico”.
E, in definitiva, in questo quadro gli autori condividono “la strategia di approccio al rischio microclima offerta dalla norma tecnica UNI EN 15265:2005 la quale coniuga gli indici di comfort e quelli di stress per giungere ad una classificazione del rischio in classi, nonché della norma ISO 28803:2012, ai fini della tutela dei soggetti sensibili”.