La sicurezza sul lavoro e la differenza di genere

di Andrea Farinazzo

Il concetto di “cultura della sicurezza” è il frutto di un tempo, di un’epoca, di stili di vita e sociali, di esperienze condivise dall’intero gruppo sociale a cui la si vuol riferire. È un concetto relativo, non assoluto. Possiamo ritenere che in Italia la “cultura della sicurezza” sia più sviluppata che in Bangladesh ma meno che in Giappone (ammesso che sia vero), ma non si può affermare che i giapponesi siano i titolari dell’ortodossia della “cultura della sicurezza” o che tutti dovrebbero tendere alla “cultura della sicurezza” giapponese, perché questo richiederebbe, anzitutto, essere giapponese. In poche parole In Italia abbiamo la “cultura della sicurezza” che ci meritiamo, per ciò che siamo, per quello in cui crediamo. Non è né un male, né un bene, è una semplice constatazione. Misurare la “cultura della sicurezza” sulla base del numero di infortuni non è utile. Un’azienda che non ha mai avuto infortuni, nonostante non rispetti le norme di sicurezza, non ha un’elevata “cultura della sicurezza”. Così come avere un infortunio in azienda non significa necessariamente che lì non vi sia “cultura della sicurezza”, come nel caso dei progettisti della centrale di Fukushima, a proposito di Giappone. E rispettare le norme di sicurezza è solo una condizione necessaria, ma non sufficiente per dire di avere una cultura della sicurezza adeguata. Un esempio pratico può essere quello del mettere tutti la cintura di sicurezza. Possiamo affermare che essa è parte integrante della nostra “cultura della sicurezza”? Non esattamente. Solamente pochi sono intimamente convinti della necessità di indossare la cintura di sicurezza. La “cultura della sicurezza” è definita solo dall’attitudine mentale con la quale si guida. Puoi indossare tutte le cinture di sicurezza che ti pare, ma se parli al telefono mentre guidi, non hai un mindset adeguato ai rischi che ti circondano. Poco importa che si usi il vivavoce o l’auricolare.
La “cultura della sicurezza” può essere suggerita dall’alto, con le norme, per imposizione. Ma attecchisce solo quando emerge dal basso, dai comportamenti quotidiani di ciascuno e dall’interiorizzazione del loro significato. Quindi sì, abbiamo la “cultura della sicurezza” che ci meritiamo.

CHE GENERE DI DIFFERENZE?
Se volessimo spiegare ad un bambino cos’è il genere, sicuramente punteremmo sulla differenza di sesso, ovvero quell’insieme di fattori genetici, biologici, fisici e anatomici che identificano la differenza tra maschio e femmina. Tutti sappiamo bene che la differenza di genere in ambito lavorativo va oltre questi aspetti e coinvolge le differenze culturali e sociali, i comportamenti, le modalità di trattamento, le rispettive professioni, le condizioni lavorative, i ruoli e gli assetti di potere delle relazioni tra uomini e donne. Le differenze tra uomini e donne vengono per lo più ignorate, quando nella realtà ci sono differenze che influiscono sui rischi a carico delle donne, troppo spesso sottovalutati.
In particolare, le donne lavorano in settori specifici e svolgono tipi specifici di lavoro; la maggior parte del lavoro domestico viene svolto dalle donne, mentre sono sottorappresentate a livello di supervisione e di gestione. Inoltre sono fisicamente diverse rispetto agli uomini, svolgono mansioni che sono spesso erroneamente considerate sicure e semplici, e a parità di lavoro guadagnano in genere meno degli uomini. Infine sono tendenzialmente più prudenti, si controllano di più, sono più attive nella prevenzione rispetto agli uomini e investono di più in cultura rispetto agli uomini.
Differenze che sono apprese, possono cambiare nel tempo e presentano notevoli variazioni tra differenti culture. Abbinare il tema della gestione della salute e sicurezza sul lavoro con le differenze di genere è impresa tutt’altro che semplice e scontata. Vi è la necessità di cogliere le differenze biologiche (sessuali) e socio-ambientali (di genere) nella valutazione dei rischi e poi nella gestione della salute e sicurezza sul lavoro. Genere e sesso incidono sui rischi di salute e sicurezza legati alla professione svolta. Spesso queste differenze non vengono riconosciute o sono sottovalutate nella prassi in materia di salute e sicurezza.
Un approccio di genere alla salute e sicurezza sul lavoro si traduce nel riconoscimento e nella considerazione delle differenze tra lavoratori e lavoratrici. Vi sono differenze che possono incidere sui pericoli cui uomini e donne sono esposti sul luogo di lavoro e sul modo di valutarli e tenerli sotto controllo. Esistono alcune malattie “di genere”, ossia patologie professionali che colpiscono in modo diverso uomini e donne.
Individuare queste differenze e affrontare la tematica della salute e sicurezza sul lavoro avendone piena coscienza non è ancora una prassi consolidata, ma è quanto mai opportuno lavorare perché lo diventi al più presto. Non si intende assolutamente trascurare il fatto che, in molti contesti lavorativi, vi sono seri problemi anche per gli uomini, tuttavia, in questo intervento si vuole concentrare l’attenzione sulle specifiche problematiche legate al lavoro femminile, ancora troppo poco indagate ed esplorate. Inoltre, come già parzialmente anticipato, la ricerca pone minore attenzione ai temi che riguardano più da vicino le donne, la partecipazione delle donne ai processi decisionali legati alla salute e alla sicurezza sul lavoro. Spesso vi è una mancata adozione delle soluzioni preventive più idonee e nella maggior parte dei casi in cui si è tenuto conto della problematica delle differenze tra uomini e donne, l’attenzione è stata focalizzata su queste ultime in quanto soggette a gravidanza, ma sono stati trascurati altri elementi di rischio a carico del sistema riproduttivo posti a monte della gravidanza (ad esempio i fattori mutageni).

LA NORMATIVA IN ITALIA
La normativa italiana dal d.lgs. 626/94, che nel prescrivere misure atte a tutelare la salute e la sicurezza sul lavoro estendeva il campo di applicazione a ‘tutti i lavoratori’ rimanendo indifferente rispetto al genere, si è sviluppata poi nel d.lgs. 81/2008 che, seguendo le indicazioni dell’UE, interpreta la parità di trattamento e che in diversi punti fa esplicito riferimento alle “differenze di genere”.
Alla luce degli obblighi normativi, i datori di lavoro devono: puntare a rendere il lavoro più sicuro e più facile per tutti, inserire le problematiche legate al genere nella valutazione dei rischi e considerare il lavoro effettivamente svolto ed evitare di stabilire a priori quali siano le persone a rischio e perché. Inoltre devono essere flessibili in relazione agli orari lavorativi e coinvolgere le donne nel processo decisionale in materia di gestione di salute e sicurezza sul lavoro.
Questo approccio è vantaggioso per tutti i dipendenti, non solo per le donne. La finalità principale è contribuire a garantire che le problematiche legate al genere vengano prese in considerazione, traducendosi in scelte e adozione di comportamenti concreti. A fronte di una legge che stabilisce la tutela della salute nei luoghi di lavoro orientata al genere, le indicazioni richiamate nel d.lgs. 81/08 non sempre risultano di facile applicazione. La prima difficoltà nell’applicazione del d.lgs. 81/08 nasce, forse, dalla mancanza di metodi standardizzati che tengano conto dell’approccio di genere per valutare il rischio occupazionale – secondo il classico schema che prevede l’identificazione dei pericoli e le misure da adottare per prevenire il danno.
Si tratta di profili che attengono in modo particolare, anche se come abbiamo visto non esclusivo, ai rischi di malattie professionali, tenendo conto della diversa esposizione che i lavoratori e le lavoratrici possono avere in determinate circostanze, in ragione delle differenti mansioni eventualmente svolte e soprattutto della loro diversa fisiologia. Alcune interessanti indicazioni vengono dalla medicina di genere che associa le diverse caratteristiche biologiche – maschili e femminili – agli effetti diversi osservati in lavoratori e lavoratrici, parimenti esposti ai rischi “specifici” – chimico, fisico, biologico, ergonomico, e di sovraccarico muscolo-scheletrico.
Per esempio, tra uomini e donne esistono numerose differenze nell’assorbimento, nel metabolismo e nell’eliminazione degli agenti chimici che, a parità di esposizione, possono modificare il rapporto dose/effetto, diversamente conosciuto come “soglia di esposizione”. I limiti espositivi sono stati finora elaborati in modalità “neutra” e sebbene siano cautelativi – molto al di sotto della dose in grado di indurre danni – non rappresentano soglie universalmente valide, potendo variare in base al sesso, a fattori genetici e agli stili di vita.

FLESSICUREZZA
L’esigenza di considerare anche i rischi specifici per la salute e la sicurezza ai quali possono essere esposti sul luogo di lavoro in modo differenziato uomini e donne è espressamente sancita dalle disposizioni vigenti. Si tratta di un principio già vigente nel nostro ordinamento, ma che, nella pratica, viene spesso trascurato o comunque non sufficientemente applicato, il che costituisce una grave lacuna per l’efficacia del sistema di prevenzione e di tutela dei lavoratori e delle lavoratrici. Il datore di lavoro deve focalizzare l’attenzione sull’organizzazione del lavoro in modo da garantire pari opportunità di tutela tra gli stessi, anche in relazione alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Questo in un mondo del lavoro flessibile e globalizzato, dove alcuni lavori tradizionalmente destinati agli uomini oggi sono anche professioni femminili e viceversa. Con benefici certo, ma anche con aspetti delicati da affrontare e risolvere. Possibili azioni che si possono mettere in atto nei luoghi di lavoro sono avviare il monitoraggio e la raccolta dati e informazioni sulla salute e sicurezza in ottica di genere, coinvolgere più donne nella consultazione nelle decisioni in materia di salute e sicurezza e tenere conto delle peculiarità individuali a partire dal genere di appartenenza. Inoltre si possono attivare processi di informazione e comunicazione per garantire coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici, individuare le lacune negli accordi di lavoro, politiche e procedure che con scelte di tipo apparentemente ‘neutro’ possono produrre effetti indesiderati di non equità tra donne e uomini, come nel caso degli orari. Infine si può migliorare le informazioni raccolte sulle esperienze negative di lavoro di uomini e donne.
In alcuni casi vi sono anche delle differenze che non sono ancora adeguatamente indagate, e saranno forse oggetto di studio diffuso nei prossimi anni. Si pensi ad esempio alla situazione di essere inviate per lavoro all’estero e dover operare in quelle aree del mondo dove le donne sono costrette al rispetto di regole molto stringenti. In questi casi è uguale essere maschio o femmina? La risposta è evidentemente no, ma l’attenzione su questi temi è molto bassa. In generale, possiamo dire che è necessario modificare l’atteggiamento culturale, attribuire alle diversità la debita importanza e assumere un impegno concreto al riguardo. Bisogna imparare a considerare la diversità della forza lavoro come una ricchezza e non come un problema.
La flessicurezza (“flexicurity”) è un neologismo inventato negli anni ’90 per identificare il modello di welfare danese e unisce in sé le parole “flexibility” (flessibilità) e “security” (sicurezza). Il punto forte e più importante di questo modello sono infatti le politiche attive di lavoro, cioè tutte quelle misure volte ad accompagnare le persone nell’inserimento e nel reinserimento lavorativo. L’idea di bilanciare flessibilità e sicurezza si è ormai diffusa in tutta Europa e questa sembra essere la strada da percorrere per creare occupazione e rispondere alle nuove necessità del mondo del lavoro, sempre più caratterizzato da un contesto economico in continuo cambiamento. Ai singoli governi il compito di declinarlo nel modo più opportuno per i diversi Paesi.
Mutuando questo concetto e declinandolo all’argomento di cui stiamo trattando, legato alla gestione della salute e sicurezza sul lavoro con particolare attenzione alle differenze di genere, potremmo coniare il termine flessicurezza che unisce in sé le parole flessibilità e sicurezza. In questo caso l’idea è quella di bilanciare flessibilità e sicurezza sul lavoro per puntare a una gestione puntuale e quanto più possibile corretta, aderente alle reali esigenze del contesto lavorativo messe in relazione con le caratteristiche delle persone, tra gli altri aspetti, anche in relazione al genere. Questo per assicurare ai lavoratori un livello elevato di salute e sicurezza, vale a dire poter operare in ogni fase della loro vita attiva in un contesto lavorativo dinamico e appunto flessibile, in rapido cambiamento, con l’obiettivo di sostenere lavoratori e datori di lavoro alla definizione di idonee condizioni di lavoro.
La sicurezza sul lavoro è una questione di etica mentale, solo con la consapevolezza del rischio possiamo fare in modo che non ci sia confidenza con il lavoro, ma rispetto.

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