di Chiara Romanazzi
Tutto il Regno Unito e tutta l’Europa aspettavano con grande suspense questo 2019, in particolare siamo tutti curiosi di sapere cosa succederà il 29 marzo di quest’anno: il Regno Unito lascerà davvero l’Unione europea, peraltro senza un accordo, o l’uscita verrà rimandata? Verrà indetto un altro referendum?
COME SIAMO ARRIVATI A QUESTO PUNTO
Come tutti ricorderemo, il 23 giugno 2016 si è svolto un referendum in Gran Bretagna sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, che si era concluso con circa il 52% dei votanti favorevoli all’uscita e il 48% favorevoli, invece, a rimanere.
A seguito di quel risultato, l’allora primo ministro, David Cameron, si era dimesso lasciando spazio alla vincitrice delle primarie all’interno del partito conservatore,Theresa May, proveniente dal ministero dell’Interno. Quest’ultima aveva da subito dichiarato la volontà di rispettare la scelta del popolo britannico di uscire dall’Ue: via dal mercato unico, dall’unione doganale e fine del movimento libero di capitali, merci, servizi e persone sostenendo di voler continuare a cooperare con l’Unione sui vari settori, soprattutto nel commercio.
IL VOTO DEL PARLAMENTO
Il governo britannico non poteva abbandonare l’Ue senza prima passare dal voto parlamentare, come stabilisce l’art. 50 del Trattato europeo. Il parlamento aveva votato quindi la notifica, avvenuta il 29 marzo 2017, consegnando la lettera ufficiale al presidente del consiglio europeo, Donald Tusk: da quel momento la Gran Bretagna aveva a disposizione due anni per concludere il processo di abbandono. Così, sono iniziate le trattative per lavorare sull’accordo di uscita dall’Ue, ma anche per il periodo di transizione post Brexit (accordato per il 31 dicembre 2020) mirato a definire le future relazioni.
L’ACCORDO
L’accordo raggiunto tra il capo negoziatore della Commissione europea, Michel Barnier, e Theresa May scontenta un po’ tutti: sia i cosiddetti Brexiters (cioè quelli che sostengono la Brexit) che lo giudicano troppo servile nei confronti dell’Ue, che i Remainers (cioè quelli che vogliono rimanere nell’Ue), i quali lo considerano troppo poco esaustivo per limitare i danni dell’uscita.
Il 15 gennaio di quest’anno è arrivato il momento della verità: la Camera dei comuni britannica ha votato e bocciato l’accordo per l’uscita dall’Ue. Si è trattata di una vera e propria disfatta per il governo inglese: 432 “No” contro 202 “Sì”; a meno di 24 ore dalla disfatta subita dalla May per l’approvazione dell’accordo, la premier ha affrontato nuovamente il Parlamento per la sopravvivenza del governo di cui è a capo e con soli 326 “No” a fronte dei 306 “Sì”, si è salvata dalla mozione di sfiducia proposta dal leader dell’opposizione laburista, Jeremy Corbyn.
LA POSIZIONE DELLA CES
Ma qual è a tal proposito la posizione della Ces, la confederazione europea dei sindacati a cui la Uilm è affiliata tramite la categoria industriale IndustriAll Europe?
La Ces ha appoggiato la posizione del sindacato confederale inglese, Tuc. Quest’ultimo, con le sue dichiarazioni del 2017 e del Consiglio generale nel 2018, aveva stabilito tre punti chiave per qualsiasi accordo:
1. Mantenimento dei diritti esistenti dei lavoratori e condizioni di parità tra i lavoratori britannici ed europei;
2. Tutela del commercio senza dazi, barriere e controlli per proteggere i posti di lavoro;
3. Nessun confine fisico tra Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda.
Poiché l’accordo della May non soddisfaceva questi punti, il sindacato britannico ha chiesto al Parlamento di votare contro. I sindacati non possono sostenere un piano che non protegge i posti di lavoro e i diritti dei lavoratori. Per questo motivo il Tuc ha invitato i parlamentari a rifiutarlo.
Anche gli standard occupazionali dei britannici rischiano di rimanere indietro rispetto a quelli dell’Ue; l’accordo propone uno status di libero scambio (ALS) con l’Ue privo di tariffe doganali e allineato sulle normative, ma non garantisce un commercio senza barriere. Inoltre,vi è il rischio concreto che i nuovi diritti e tutele sociali adottati dall’Ue dopo la transizione non siano mantenuti nel Regno Unito, creando quindi disparità tra i lavoratori britannici e quelli europei.
A RISCHIO I POSTI DI LAVORO
A livello commerciale, le stime sugli impatti socio-economici della Brexit evidenziano diversi effetti negativi sull’occupazione, che mettono a rischio molti posti di lavoro e contraggono il potere d’acquisto dei cittadini, in aggiunta all’aumento dei prezzi.
Resta inoltre irrisolto il problema del confine dell’Irlanda del Nord e della Repubblica d’Irlanda. Nell’accordo appena bocciato è previsto che l’Irlanda del Nord rimanga – fino alla definizione di un piano definitivo – nel mercato unico europeo per evitare la ricostituzione di un confine fisico tra le due Irlande – che comporterebbe il ripristino dei controlli alle frontiere delle merci e delle persone – con il rischio, inoltre, di recrudescenza della instabilità politica e sociale, faticosamente arginata con l’accordo tra UK e Repubblica d’Irlanda. Per il Parlamento inglese una proposta inaccettabile, perché significa perdere parte della sovranità sull’Irlanda del Nord. Intanto, però, non avere un accordo non è certo una soluzione.
PRIMA IL LAVORO E I DIRITTI
Come ha dichiarato la Ces: “Ogni nuovo accordo deve mettere posti di lavoro e i diritti delle persone che lavorano nell’Ue e nel Regno Unito al di sopra di ogni altra considerazione”. Finora l’unica soluzione meno dolorosa sarebbe l’estensione dell’art. 50 del Trattato europeo, che però al momento non è stata richiesta (dovrà essere il Consiglio europeo a richiederla mettendo d’accordo i 27 stati membri).
Come sappiamo, l’art. 50 prevede che se uno stato membro decide di uscire dall’Ue, ha due anni di tempo per negoziare l’uscita.
DUE SCENARI
Oggi si aprono due possibili scenari: un “no deal” (uscita senza accordo) oppure, appunto, un’estensione dell’art. 50 che però, al momento, appare improbabile che possa andare oltre il 30 giugno, poiché dal primo luglio dovrà insediarsi il nuovo Parlamento europeo. In questo eventuale lasso di tempo l’attuale accordo potrebbe essere ridiscusso, ma Barnier è molto scettico.
Un’altra incognita per il Regno Unito è legata alle elezioni del Parlamento europeo. Spetta al Consiglio europeo decidere se “congelare” i 73 seggi spettanti al Regno Unito in attesa di una decisione definitiva sulla Brexit. Certo, i restanti Paesi eleggeranno i propri membri al PE, perché non si può bloccare il processo democratico. Come Uilm ci auguriamo che la soluzione non sia il “no deal” e, intanto, continuiamo a seguire l’evolversi di questa vicenda che, da quando è iniziata, offre numerosi colpi di scena.